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Amici Corecco

Eugenio Corecco un Vescovo e la sua Chiesa: Volume 2

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Maria modello di santità

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Omelia per la festa di San Carlo Borromeo, patrono della Diocesi, tenuta in Cattedrale il 9 novembre 1986.

«Le anime si conquistano con le ginocchia», ripeteva S. Carlo Borromeo, e in effetti, scrive Piero Bargellini, Carlo Borromeo fu uno dei maggiori conquistatori di anime di tutti i tempi. Figlio dei Conti Borromeo, padroni e Signori del Lago Maggiore e delle terre rivierasche, fu già tonsurato quando aveva solo 12 anni, in omaggio alla carriera riservata ai secondogeniti delle famiglie nobiliari. A soli 22 anni ricevette dallo zio Papa Pio IV il cappello cardinalizio, sul quale piovvero abbondanti onori e prebende. Carlo Borromeo prese però le cose sul serio, scoprendo, nella sua rapida ascesa nepotista, la chiamata di Dio. Dopo la morte prematura del fratello primogenito rinunciò perciò alla successione quale capo della famiglia Borromeo, rimanendo nello stato ecclesiastico. A 27 anni entra trionfalmente a Milano, quale arcivescovo di una Diocesi, vasta come un regno, che si estende su terre lombarde, venete, genovesi e svizzere. Un’arcidiocesi che conta 5000 preti secolari e religiosi e 3500 religiose, ma che, per non aver visto, per ben 80 anni, risiedere i propri Vescovi, mondanamente occupati presso sfarzose corti rinascimentali italiane, si trovava in uno stato di corruzione morale generale, del popolo, del clero e della fede.
Nel breve volgere dei 19 anni del suo episcopato, il giovane Vescovo, che morì a soli 46 anni il 3 novembre 1584, visitò l’arcidiocesi in ogni suo angolo. Per ben sette volte percorse a cavallo le nostre terre ticinesi passando cinque volte nelle Tre Valli.
Conquista le anime dei suoi fedeli con la preghiera e la penitenza, ma questo rigore personale, che lo preserva da ogni ambizione di potere mondano, lo sollecita anche a impugnare tutti i problemi del suo tempo, con la forza e la decisione di un protagonista.
La fede di Carlo Borromeo non si esprime solo nell’ascetismo austero della sua vita privata, quella che ci imprime tanta paura e tanto sgomento, ma si declina anche come presenza storica, nei tre ambiti fondamentali della vita pubblica, quello ecclesiastico, quello politico e quello sociale.
Si è inserito come protagonista, superando tutti i suoi contemporanei, nel processo di riforma cattolica della Chiesa, dedicando la sua vita di pastore all’applicazione, prima su se stesso che sugli altri, delle direttive di rinnovamento della vita ecclesiale, promulgate dal Concilio di Trento cui egli stesso aveva appena preso parte. Divenne così il modello del Vescovo tridentino, al quale tutti i riformatori cattolici e i santi dell’epoca hanno guardato con ammirazione e consolazione. La sua attività pastorale fu prodigiosa; come organizzatore, ispiratore e fondatore di opere, di iniziative; come legislatore sapiente e minuzioso, grazie alla convocazione di ben sei Concili provinciali ai quali convennero non solo i vescovi della provincia di Milano, ma quelli di tutta l’Italia settentrionale. Gli atti di questi Concili milanesi vennero richiesti in centinaia di copie dagli arcivescovi di Lione e Toledo, e S. Francesco di Sales scrive da Ginevra che «lo studio di quelle pagine era indispensabile per ogni vescovo».
Sul piano politico si impegnò, da una parte, lottando contro le prepotenze dei Signori e le angherie dei Governatori spagnoli di Milano, così come ci ricorda il Manzoni nei Promessi Sposi; dall’altra, cercò nei Cantoni Svizzeri e nei Comuni grigionesi il contatto e la collaborazione delle personalità politiche più eminenti per impedire che i Governi di quei Paesi, resi arbitri della fede dei loro sudditi dalla Pace di Augusta del 1555, decidessero di introdurre la riforma protestante. «L’uomo più austero di questa epoca», constata ancora S. Francesco di Sales, quasi suo contemporaneo, «non ha esitato, con senso inaspettato di una santa libertà, a brindare con molti uomini politici, più di quanto non lo richiedesse la sua sete, per cattivarsi la loro sequela al suo progetto di salvaguardia della fede cattolica».
In campo sociale profuse a piene mani le ricchezze di famiglia fino all’esaurimento, in favore dei poveri, creando ospedali e ospizi, istituzioni di assistenza di ogni sorta, collegi per l’istruzione dei meno abbienti, di cui hanno beneficiato largamente anche gli svizzeri: a Milano con il Collegio Elvetico, a Pollegio con il Collegio di S. Maria e ad Ascona con il Papio. Tre istituti tuttora esistenti.
Durante la durissima carestia del 1569 procurò ingenti acquisti di farina, di riso e di legumi; ordinò che si tenessero caldaie piene di cibi caldi, sotto i portici del palazzo arcivescovile, al quale non era impedito a nessuno l’accesso. Più di 3000 persone al giorno vennero nutrite dall’Arcivescovo durante i lunghi mesi della carestia, inducendolo a indebitarsi e a mendicare lui stesso presso altri ricchi. L’apice del suo altruismo eroico nell’attività sociale fu toccato nel 1577, anno della terribile peste che coinvolse gran parte dell’Italia settentrionale, tanto che prese il nome di «peste di San Carlo». È. ancora il Manzoni che ricorda «che tra le memorie così varie e così solenni di un infortunio generale… quest’uomo ha ispirato sentimenti e azioni più memorabili ancora dei mali». Mentre molte personalità autorevoli, come il governatore spagnolo, fuggivano da Milano in posti più sicuri, Carlo Borromeo decide di rimanere accettando l’eventualità della morte. Stila infatti il suo testamento in cui lascia erede universale dei suoi beni personali l’Ospedale Maggiore. Fa costruire 200 capanne per accogliere gli appestati, al di fuori di ciascuna porta della città; manda il suo domestico friburghese in Leventina, presso gli Svizzeri, per farsi dare 70 uomini e donne e alcuni preti che lo aiutino a Milano ad assistere gli appestati; adopera gli arazzi e le tappezzerie del suo palazzo e distribuisce 1500 braccia di panno per confezionare vestiti da distribuire ai poveri durante quell’inverno di particolare rigore; esce ogni giorno a visitare di persona gli appestati, raggiungendo anche Brissago dove entra nelle case di ciascuno, distribuendo a tutti denaro.
Se commemoriamo San Carlo come patrono principale della nostra Diocesi è perché oggi possiamo ancora, attraverso questi brevi profili della sua persona, trarre insegnamento per la nostra presenza di cristiani nella società moderna, di cui respiriamo a pieni polmoni la cultura. Non è al Cardinale Arcivescovo in quanto tale; non è all’uomo ricchissimo che può aiutare con dovizia i poveri e non è neppure al Santo in quanto tale, un Santo quasi intangibile per la nostra sensibilità edonista, che dobbiamo guardare in primo luogo. È a Carlo Borromeo quale cristiano, quale battezzato che vive la sua esistenza a partire dalla fede in Cristo, che dobbiamo guardare, perché questa fede è l’unico punto comune tra noi cristiani del XX secolo e lui cittadino del XVI secolo. Malgrado le insormontabili differenze di origine, di funzione, di censo, malgrado i mutamenti radicali intervenuti nella situazione culturale, politica e sociale, abbiamo con lui il fatto comune di essere anche noi cristiani.
L’attualità della sua testimonianza non è sorprendente, poiché consiste nel fatto che a distanza di quattro secoli anche noi, come lui, siamo cristiani, persone che credono in Cristo. Non ci dobbiamo lasciare ingannare dalle differenze, perché sono solo estrinseche; sono quelle derivanti dalla diversa situazione personale, familiare, sociale e culturale. L’elemento comune sta nella possibilità di utilizzare la fede per vivere il nostro destino di uomini. Carlo Borromeo non è grande perché è stato uno dei protagonisti europei del suo tempo, poiché molti altri furono i protagonisti di quell’epoca. È grande perché ha capito che abbandonando i parametri di vita e di comportamento dei suoi contemporanei in nome di Cristo, quelli di una situazione economica e sociale molto privilegiata, poteva porsi nella società di allora con una nuova identità umana, capace di portare un messaggio nuovo nei confronti del mondo ecclesiastico, politico e sociale del suo tempo.
In questo senso la sua testimonianza è perenne e vale anche oggi, per qualsiasi cristiano e per ciascuno di noi, indipendentemente dalla situazione culturale, patrimoniale e sociale irreversibilmente diverse. Ci aiuta a capire che la fede in Cristo può diventare anche per noi principio di identità della nostra persona. Vale anche per noi e, nello stesso tempo, mette a nudo la nostra debolezza. Essa sta nel fatto che, a differenza di Carlo Borromeo, ci lasciamo determinare acriticamente, sia che siamo ricchi, sia che siamo meno ricchi o poveri, dall’ambiente culturale e sociale in cui viviamo, incapaci di esprimere a livello dell’ascesi personale e del nostro impegno professionale una identità che trovi, nella fede e nell’appartenenza a Cristo, il principio per un’esistenza diversa da quella che conduciamo. Siamo cristiani a religiosità debole, che rincorrono il desiderio di appartenenza a Dio, ma restiamo disassociati, perché viviamo una fede ed una ascesi intimistiche, estranee al mondo; oppure perché viviamo proiettati negli impegni professionali e sociali, censurando l’impeto della nostra famiglia, dell’educazione dei nostri figli, della scelta della nostra carriera e dello svolgimento della nostra professione, della fruizione del tempo libero, dei mezzi di comunicazione, della scelta delle nostre amicizie, dell’uso dei nostri beni materiali, del nostro modo di pensare la vita privata e quella sociale.
L’assoluta priorità costantemente data da Carlo Borromeo alle persone più deboli della società di allora ci deve far riflettere in questa domenica dedicata la tema del migrante, al modo con il quale ci rapportiamo con gli stranieri che operano in condizioni molto più difficili della nostra nel nostro contesto economico-sociale, di cui siamo i beneficiari privilegiati. Ci deve far riflettere sul modo con il quale pensiamo e operiamo concretamente con i rifugiati e i candidati all’asilo, la cui presenza spaventa e raggela irrazionalmente il nostro cuore.
In effetti, viviamo tutte queste cose, che tessono il contenuto della nostra vita reale, quella che conta ai nostri e agli occhi del mondo, come se la nostra fede in Cristo non c’entrasse.
San Carlo «ha salvato le anime con le ginocchia»; ha salvato cioè i suoi contemporanei, riconvertendoli al senso di Dio e alla centralità di Cristo per il destino dell’uomo e della società. L’ha fatto perché ha messo la sua ascesi e la sua penitenza intima al servizio della testimonianza della sua fede, nell’ambito dell’impegno pubblico, ecclesiale, politico e culturale. Ha capito che la fede non gli era stata data solo per usufrutto individuale e personale, ma per manifestarla e trasmetterla ai suoi contemporanei interessandosi ai problemi che aveva in comune con essi e con tutta la società in cui viveva.
Questa figura di Carlo Borromeo, santo, perché ha vissuto la nostra stessa condizione di cristiani raggiungendo, per speciale grazia di Dio, la perfezione, questo San Carlo, della cui memoria sono sovraccariche le nostre terre ticinesi, non ci propone in primo luogo il modello della sua santità eroica, bensì l’immagine di come essere cristiano; un modello secondo cui anche noi dobbiamo vivere la nostra esistenza umana di tutti i giorni. Un modello in cui la persona, la nostra persona, si identifica con la propria fede in Cristo; sa usare la fede come criterio religioso e culturale secondo cui vivere tutti gli interessi della vita, anche se, a differenza di Carlo Borromeo, non siamo capaci e non ci è data la Grazia di vivere questa nostra identità cristiana senza peccato.

Omelia per il V centenario della nascita di San Girolamo Emiliani, fondatore dei padri somaschi, Bellinzona, febbraio 1987.

San Girolamo Emiliani, un gentiluomo laico che fu contemporaneo, nei primi decenni del ‘500, di due altri rampolli della borghesia e della nobiltà delle terre venete: Gaetano da Thiene, padre dei Teatini, e Antonio Maria Zaccaria, fondatore dei Barnabiti come lui sono diventati santi e fondatori di Congregazioni o Società di chierici.
Questi tre uomini, che sovrastano i loro contemporanei per la forza e la creatività della loro fede, rivelano alcuni tratti comuni, sui quali merita riflettere anche a cinque secoli di distanza.
Vivono in una società spaccata da profonde contraddizioni: la ricchezza provocante del Rinascimento, appannaggio di pochi privilegiati, e l’estrema povertà e miseria di molti, anzi della stragrande maggioranza della popolazione, esattamente come nella nostra società moderna.
Vivono un’esperienza ecclesiale che ha come protagonista la Roma dei Papi del Rinascimento, al centro dell’ammirazione o dell’esecrazione universale. Per molti Roma rappresentava, infatti, la Gerusalemme non solo della fede, ma della civiltà e dell’arte; per altri, invece, rappresentava la Babilonia, dove si faceva mercato delle cose sacre, e, con la scusa della cultura e dell’arte, si viveva in un clima di rinnovato paganesimo.
Questi Santi non pensano né all’una né all’altra cosa, non sprecano le loro energie partecipando alle lotte ideologiche del tempo, che non hanno potuto impedire d’attecchire al seme della Riforma protestante, seme che ha rotto l’unità religiosa e politica della società europea.
Questi uomini pensano a Cristo e si mettono all’opera per salvare gli uomini e il clero del loro tempo, come Gaetano da Thiene che nel ciclone delle diatribe e polemiche pensava a Cristo e diceva: «Gesù attende e niuno si muove». Tutti e tre questi uomini hanno distribuito il loro patrimonio ai poveri e hanno speso tutte le loro risorse umane per gli emarginati del tempo, creando ospizi per i poveri, ricoveri per le persone sbandate, ospedali per gli ammalati e i moribondi di una società periodicamente flagellata da terribili carestie e dalla peste. Tutti e tre hanno creato scuole per giovani, nella coscienza che l’umanità e la società possono essere salvate solo a condizione di essere educate alla fede e ad una cultura che non elida Dio, come presupposto dei progresso sociale ed economico. Tutti e tre, questi Santi, hanno capito con intuito infallibile che il presupposto per la ripresa religiosa del popolo cristiano era quello della riforma spirituale e culturale del clero. L’hanno perciò costituito in società o fraternità, che permettessero ai preti di fare un’esperienza di comunione profonda, sottratti allo sfascio della ricchezza o della povertà, all’umiliazione della ignoranza o della mondanità, alla riduzione dell’individualismo e della solitudine.
Se guardiamo su scala mondiale la nostra società contemporanea e se dovessimo riepilogare l’esperienza ecclesiale da noi vissuta in questi ultimi venti anni, possiamo comprendere l’indiscussa attualità dell’eredità spirituale lasciataci da questi tre cristiani e l’attualità del loro metodo, dettato dalla fede nell’approccio dei problemi sociali ed ecclesiali del loro tempo.
Anche noi, pur vivendo nel benessere privilegiato delle nostre città, siamo tentati di limitarci a prendere parte, pro o contro, alle discussioni sui fenomeni di scompenso sociale, politico e culturale e sulle cause che provocano quegli squilibri spesso terrificanti, di cui i mass-media ci rendono edotti di giorno in giorno. La fede o la nostra appartenenza religiosa diventano spesso semplice occasione di schieramento a destra o a sinistra, raramente, invece, movente e motivazione di un nostro impegno personale, per alleviare, per quanto possibile, le contraddizioni immanenti anche alla nostra società del benessere in cui, come tutti sappiamo, è recentemente emersa l’esistenza di una nuova povertà. 1
Esistono indubbi sintomi che queste constatazioni siano vere. Basterebbe ricordare la questione dei rifugiati e dei richiedenti l’asilo, per accorgerci che esauriamo spesso le nostre energie attorno alla questione politica di principio, senza accorgerci che queste persone vivono comunque già in mezzo a noi e saranno sempre presenti tra di noi anche in futuro. Ignoriamo il dovere della accoglienza, che dovremmo offrire loro, come ci raccomandano i Vescovi Svizzeri nel loro rapporto e nel loro recente appello 2, prima ancora di porci le questioni di principio. Questo, anche quando non dovessimo considerare cinicamente gli asilanti come persone estranee alla nostra vita e alla nostra convivenza sociale.
Esistono molti altri bisogni sociali, sui quali abbiamo (e discutiamo) la nostra opinione, come quello della rovina fisica e morale provocata dalla droga nei ranghi della nostra gioventù; la minaccia dell’Aids, paragonabile forse a quella della peste bubbonica del ‘500; il fenomeno dei figli abbandonati a se stessi dalle loro famiglie; quello delle donne picchiate, delle persone e famiglie indebitate dal piccolo credito; quello delle innumerevoli persone sole. Ma di fronte a questi e ad altri fenomeni spesso nascosti della nostra società non abbiamo né la forza di mobilitarci con gesti concreti per darvi una risposta, né, ultimamente, la generosità per sostenere chi si impegna, come avviene per esempio grazie alle numerosissime opere assistenziali della nostra diocesi.
Ci possiamo chiedere chi tra di noi ha ancora il coraggio di sostenere con determinazione e fedeltà opere assistenziali antiche o di suscitarne di nuove. Nella migliore ipotesi registriamo il contraccolpo di queste situazioni sociali, a livello psicologico e sentimentale, ma non troviamo
il modo di agire concretamente.
Lo stesso fenomeno diventa ancora più macroscopico quando dovessimo analizzare il nostro comportamento cristiano, rispetto alle più vaste e più profonde contraddizioni sociali e politiche che dilaniano la società umana a livello internazionale. Spesso, pur essendo addolorati di fronte a queste situazioni, non sappiamo neppure offrire le briciole più piccole del nostro benessere.
L’esempio di San Girolamo Emiliani, come quello dei due preti suoi contemporanei, ci deve aiutare a capire il metodo fondamentale della nostra presenza cristiana nel mondo e nella società. Non può essere una presenza che tocchi la nostra persona solo alla superficie di se stessa, esaurendosi in una partecipazione astratta e teorica ai problemi, ma una presenza che coinvolga tutto il nostro essere.
Ciò vale anche per il modo di vivere la nostra appartenenza alla Chiesa. Ci occupiamo, magari fortemente ideologizzati, dei problemi della Chiesa, ma nella nostra astrattezza non ci accorgiamo che la Chiesa è resa presente nel mondo solo nella misura in cui noi ne realizziamo la dinamica sulla nostra persona. La Chiesa non è una realtà astratta personificata da alcune strutture, ma coincide con quella parte di umanità e della nostra persona che è realmente convertita dalla fede in Cristo.
Se questa divaricazione tra fede e prassi esiste, è perché la nostra fede rimane astratta, senza diventare l’elemento genetico della nostra esperienza di vita. Viviamo accanto alla nostra fede, non permettendo che questa investa tutti i settori della nostra vita. Rimane una forma di partecipazione intellettuale oppure semplicemente nozionistica al mistero della persona di Cristo. Ciò di cui dobbiamo preoccuparci non è tanto il fatto della divaricazione tra la nostra conoscenza del Vangelo (quando lo conosciamo) e la prassi concreta della nostra vita, perché è spesso solo l’esito della nostra fragilità morale; quanto piuttosto del fatto più profondo e incidente che teorizziamo l’esclusione dalla sfera della fede di quei settori della vita che realmente contano: quello della nostra famiglia, quello del nostro rapporto affettivo e coniugale, quello della professione e della carriera, quello dei rapporti con gli altri e quello patrimoniale, come se questi settori non c’entrassero con la fede e potessero essere vissuti secondo i modelli che la società o l’opinione dominante ci propongono.
Il desiderio della salvezza eterna della nostra anima non si traduce in desiderio di salvare il nostro modo di vivere e la nostra esistenza, dalla mondanità e dalla mancanza di identità impostaci dall’ambiente culturale in cui viviamo. La nostra fede in Cristo rimane intellettuale, senza provocare e investire la vita di tutti i giorni, quella cui veramente teniamo, che rimane così determinata da una concezione estranea alla fede. Siamo cristiani in perdita di identità, che vivono un’esperienza religiosa debole, incapace di diventare creativa. L’esperienza religiosa ricca di operosità, come quella di San Girolamo Emiliani, rimane un Girolamo Emiliani non solo ha dato i suoi beni, come Cristo ha raccomandato nel Vangelo di oggi al giovane ricco, ma ha dato tutta la sua persona. In effetti il giovane ricco non ha avuto tanta paura di perdere le sue ricchezze, quanto di perdere se stesso. È questa la paura che ci attanaglia di fronte a Cristo, quella di perdere noi stessi, di perdere uno spazio di autonomia nei suoi confronti. Non a tutti è chiesto di rinunciare concretamente a tutto o a parte di ciò che possiede, anzi a questa rinuncia Cristo invita solo pochissimi privilegiati. A tutti è chiesto invece di dare la propria persona, di non dare solo una parte di essa e di non aderire a Cristo solo astrattamente, perdendosi in una fede solo intellettualistica, facile preda alle diatribe del tempo, sempre pronte ad attribuire la colpa dei problemi personali e della società delle strutture o alla poca fede degli altri.
San Girolamo Emiliani, come i due santi suoi contemporanei, che abbiamo ricordato perché accomunati da una stessa metodologia cristiana – quella di aver affrontato la società e il mondo pieno di contraddizioni in cui hanno vissuto, non a livello di diatriba ideologica, ma di compromissione personale con i fatti sociali e le persone concrete da loro conosciute – questi Santi non hanno avuto la pretesa di salvare la loro società con un progetto politico, ma hanno operato concretamente nella breve cerchia di persone e di cose che il Signore ha permesso loro di incontrare e di toccare. Per questo il laico Girolamo Emiliani è diventato santo, non per aver creduto di avere il compito di cambiare il mondo, ma per aver creduto, invece, che solo Cristo lo può salvare e che Cristo lo salva anche se noi uomini non riuscissimo, come non riusciremo mai, a trasformarlo totalmente al profilo sociale, economico e politico, senza però rimanere con le mani in mano. Hanno fatto tutto come se tutto fosse dipeso dal doro lavoro apostolico e caritativo. Noi cristiani non siamo chiamati a cambiare il mondo da soli, perché questo compito è stato affidato da Dio nella creazione a tutti gli uomini; è il mandato culturale che incombe a tutti, indistintamente. Noi cristiani siamo chiamati a porre soprattutto segni profetici, come sono stati posti da San Girolamo Emiliani, segni che durano fino ad oggi.
Sono segni profetici che ricordano a noi stessi e a tutti gli uomini la presenza di Cristo in noi e della sua Chiesa nel mondo, presenza che permette a tutti gli uomini di buona volontà di credere che la salvezza non viene dall’uomo, non è opera delle sue mani, ma viene da Cristo, è spirituale e non coincide con la salvezza temporale e con il benessere.

1 Christian Marazzi, «La povertà in Ticino», Dipartimento Opere Sociali, 1986.

2 Dalla parte dei profughi – Per una politica d’asilo umana , Memorandum II delle tre Chiese nazionali sul problema del diritto d’asilo e dei profughi, 13 gennaio 1987.

Omelia pronunciata nella chiesa di san Nicolao della Flue a Lugano, in occasione del quinto centenario della morte del Santo, 22 marzo 1987.

Celebriamo oggi il quinto centenario della morte di San Nicolao della Flüe. Non si tratta solo di commemorare l’importanza storica e civile del suo agire e del suo operare, per la storia della nostra convivenza nazionale, bensì di fare, in primo luogo, la memoria liturgico-sacramentale di un cristiano che appartiene, con certezza, alla comunione dei Santi e perciò alla dimensione cosmica della celebrazione eucaristica stessa. I Santi sono presenti nell’Eucaristia, in cui si realizza non solo la presenza del Corpo reale di Cristo, ma anche quella di tutto il suo Corpo mistico. San Nicolao non appartiene, perciò, solo al patrimonio della nostra storia civile, ma in modo primario anche al patrimonio irrinunciabile della nostra identità cristiana, ecclesiale e cattolica. Non possiamo eliderlo dalla coscienza che di noi stessi abbiamo in quanto membra del Corpo mistico di Cristo e del Popolo di Dio; in quanto persone appartenenti alla Chiesa cattolica.
Un cristiano che, pur nel lunghissimo silenzio di 20 anni, ha sovrastato, con la sua statura di uomo spirituale, gli uomini del suo tempo.
È nato nel 1417, un anno prima della conclusione del XVI Concilio ecumenico, che aveva avuto luogo a Costanza, tra il 1414 e il 1418, a soli 200 km. in linea d’aria da Sachseln, parrocchia dei natali di Nicolao della Flüe. Un Concilio, quello di Costanza, che aveva messo fine a uno dei fatti più incresciosi della storia della Chiesa, quello della spaccatura della Cristianità secondo l’obbedienza a tre Papi, simultanei e diversi; fatto che passò alla storia con il nome di Grande Scisma, o Scisma di Occidente.
Non fu tuttavia questo Concilio che seppe ottenere una riforma dei disordini imperanti tra il clero, i religiosi, i laici e le Facoltà teologiche. La vita ecclesiastica continuò per oltre un secolo nella confusione. La riforma non venne dall’alto, ma dalla base, dai movimenti mistici che, contro tutto e tutti, prolificarono nel corso del XV secolo. La terra più ricca di queste esperienze eremitiche e mistiche, e più vicina ai Cantoni svizzeri, fu l’Alsazia. Fu con queste correnti di alta spiritualità, attraverso eremiti insediatisi nei Cantoni primitivi, che Nicolao della Flüe entrò in contatto, fin da quando era ancora giovane. Non meraviglia perciò che abbia trascorso gli ultimi vent’anni della sua vita come eremita. Ha vissuto, anche in questo, partecipando coscientemente, e come protagonista, agli avvenimenti del suo tempo, pur essendo analfabeta.
I tratti essenziali della sua vita li conosciamo: contadino possidente, fortemente radicato nella sua terra; a 30 anni, in età adulta, sposa Dorotea Wyss, a sua volta figlia di famiglia notabile e rispettata; padre di 10 figli; magistrato e capitano d’armi; soldato in quattro campagne militari oltre i confini della sua terra, che sapeva maneggiare la spada o l’alabarda meglio degli altri, ma che si sforzava anche in questi frangenti di concedere la misericordia ai soccombenti, così come hanno certificato testimoni oculari; eremita che ha rigorosamente digiunato, cibandosi solo della particola eucaristica per tutti gli ultimi 20 anni della sua vita; pacificatore silenzioso di molte situazioni familiari e comunali, in modo clamoroso, però, degli svizzeri alla Dieta di Stans.
Deriso e ammirato nel suo villaggio natale; guardato con perplessità e scetticismo da molti, ma ascoltato dall’Europa del XV secolo, dalle cui corti e dai cui governi partivano ambasciatori (come da Milano) per consultarlo sui problemi inerenti al mantenimento della pace tra i Principi o gli Stati.
I teologi del suo tempo, smarriti nelle diatribe sterili delle Università, si sono peritati di sottoporlo ad esame; l’Inquisizione lo ha fatto sorvegliare a vista per coglierlo in fallo sul digiuno; molti curiosi sono arrivati al Ranft, da lontano, nella speranza di poter incontrare o almeno spiare l’uomo che «viveva senza mangiare», con la stessa dabbenaggine di chi spera di poter vedere un vitello a due teste; moltissimi altri sono venuti invece per toccarlo, per sentire i suoi consigli e vederlo pregare.
Un uomo che come tanti altri Santi è stato tormentato dal demonio e dai suoi fantasmi, ma un Santo, tra i pochissimi nella storia della Chiesa forse l’unico, che il Signore ha condotto fin sull’orlo dell’abisso della Trinità. L’ha intravvista, folgorato da una luce che gli ha trasfigurato per sempre il viso, come era già accaduto a Mosè sul monte Sinai. Quest’uomo che si è dato nella carne a sua moglie con la passione e l’intensità di chi sa cosa significhi amare e con il trasporto di chi è cosciente di partecipare con la sua donna, nella procreazione, all’esperienza divina della paternità; quest’uomo dall’anima gigantesca ha visto svolgersi e snodarsi davanti ai suoi occhi il dramma del rapporto, eterno e immutabile, ma sempre nuovo, vivo e sfolgorante delle persone della Santissima Trinità.
In questa visione trinitaria, che supera i confini della intelligibilità umana, Nicolao della Flüe ha colto una indicazione precisa per la sua vita, quella di essere mandato a compiere una infaticabile missione di pace tra i suoi contemporanei. È diventato il Santo della pace, tra gli uomini del suo tempo, tra gli svizzeri nostri predecessori. Un Santo che non ha confuso il pacifismo con la pace, la cui attualità è perciò immensa anche per noi cristiani chiamati a vivere questo nostro tempo. San Nicolao ha dimostrato a tutti che la visione del mistero della Trinità, in se stesso inaccessibile senza una Grazia particolarissima di Dio, ma da tutti i cristiani creduto nel dono della fede, può e deve inverarsi fino a diventare norma concreta per il nostro comportamento umano.
Quel mistero della Trinità che passa davanti alla nostra mente, in una conoscenza nascosta e velata, ogni qualvolta recitiamo il Credo, simbolo della nostra fede, può diventare criterio per il nostro modo di vivere. È sufficiente recitarlo in modo cosciente, non meccanico, per scoprire in esso le coordinate fondamentali e i punti di riferimento più sicuri per il nostro vivere e per il nostro agire. Così come mi è capitato di recitarlo recentemente, questo nostro Credo, tornando più volte sui miei passi per ripetere le parole che mi venivano sulle labbra, quando mi sono inginocchiato, per la prima volta come Vescovo, davanti alla tomba di San Pietro in Vaticano in occasione della recente visita «ad limina». Di fronte alla tomba di questo Apostolo, che è diventato il primo garante infallibile della nostra fede, il Credo ha assunto una risonanza straordinaria.
Proviamo anche noi a riflettere sulle prime asserzioni di questo Credo, quelle che concernono il Figlio di Dio, ma che coinvolgono anche il Padre e lo Spirito Santo.
«Credo in un solo Signore Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero». Sono parole semplici. dal cui accostamento emerge però un significato inesauribile. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero.
Del Figlio di Dio affermiamo anche che è «generato», che «non è creato» e che non è fatto. Del Figlio di Dio diciamo ancora che «in Lui tutte le cose sono state create, prima di tutti i secoli»: prima che il mondo fosse posto in essere concretamente nella storia, dal Padre, creatore del cielo e della terra. Diciamo ancora che il Figlio di Dio «è disceso dal cielo, per la nostra salvezza e si è fatto uomo ed è stato concepito per opera dello Spirito Santo». Siamo al limite della capacità intellettiva dell’uomo, pronunciando queste parole, eppure tutto è semplice, tanto che lo possiamo intuire tutti e credere e possiamo derivarne criteri pratici di comportamento per la nostra esistenza.
Dalla contemplazione del mistero trinitario San Nicolao ha declinato criteri per essere presente in mezzo ai suoi contemporanei.
Ha preso sul serio l’affermazione che il Figlio di Dio è disceso dal cielo per la nostra salvezza e si è fatto uomo. San Paolo nella lettera ai Filippesi (2, 6-11) dice infatti, servendosi di un linguaggio simbolico, che il Figlio di Dio non ha tenuto per sé gelosamente il fatto di essere Dio, ma che per la nostra salvezza ha accettato di assumere la condizione di uomo, rinunciando al privilegio di rimanere presso il Padre. La salvezza consiste nella pace dell’uomo con Dio: nella nostra riconciliazione con Dio, che ha come conseguenza la riconciliazione con tutti gli uomini. La pace sta nell’amare Dio e il prossimo. Il pericolo per la pace nell’epoca moderna ha la sua prima radice nell’ateismo dell’uomo moderno. E un fatto culturale nuovo nella storia dell’umanità, quello che l’uomo abbia perso o stia perdendo rapidamente la coscienza di appartenere a Dio.
Nicolao della Flüe, dopo aver intravvisto come in una luce il significato storico di questo discendere dal cielo di Cristo per la salvezza degli uomini, si è prodigato, malgrado il nascondimento del Ranft, perché gli uomini del suo tempo vivessero nella pace. La sua contemplazione della Trinità si è tradotta così in missione di pace tra i suoi contemporanei. Quello che sorprende inoltre è il fatto che ha saputo esprimere questa missione attraverso una formula semplicissima, presa dal suo contesto contadino. Agli svizzeri, ingordi e triviali, disposti a battersi a sangue, piuttosto che perderci, quando si trattava di dividere il bottino delle guerre di Borgogna, l’eremita non ha fatto ricorso ad argomentazioni dotte e sofisticate, ma ha mandato a dire: «Non estendete troppo lontano il vostro steccato e non intromettetevi negli affari degli altri». II grande mistico, che aveva contemplato la Trinità, ha declinato la sua visione nella quintessenza della saggezza naturale del contadino, usando una formula perfettamente comprensibile dai suoi concittadini, anche dai meno colti. L’impulso di pace che scaturisce dalla visione del Figlio di Dio che discende dal cielo per comporre nella pace l’uomo con Dio e gli uomini tra di loro, trova la sua espressione in una formula di saggezza umana. Ciò significa che la verità presente nel cuore dell’uomo esprime sempre una scintilla della verità di Dio.
L’uomo che ha scrutato il mistero della Trinità, ha saputo leggere segni utili per una convivenza umana, nel fatto che il Figlio di Dio (che è Dio da Dio e Luce da Luce, che è Dio vero da Dio vero) è disceso dal cielo e ha dato tutto se stesso, fino a morire sulla croce, per portare la pace all’umanità. È diventato così il padre anche della nostra esperienza politica, fondata sul principio del non espansionismo e della non ingerenza.
Una esperienza di neutralità che nella nostra storia ha assunto ben presto una terza connotazione, derivante dalle prime, quella della ospitalità. Discese dal cielo per la nostra salvezza, significa che Cristo ha dato se stesso, rinunciando alla situazione di privilegio divino, in cui aveva tutto, per portare all’uomo la conoscenza del Padre e dello Spirito Santo. Per fare questo ha dovuto spogliarsi di tutto quanto possedeva e della sua vita stessa, con la morte in croce.
Dalla contemplazione del mistero della Trinità, così come ci è possibile comprenderlo quando recitiamo il Credo, possiamo anche noi, facendo la memoria liturgica di San Nicolao, trarre qualche conclusione per la nostra vita concreta e per la situazione storica in cui viviamo.
II contributo che noi dobbiamo dare oggi alla pace nel mondo non può più esaurirsi solo nel non erigere muri di cinta troppo lontani e nel non intrometterci negli affari altrui, politica che pratichiamo da tempo immemorabile. Alla luce di questo principio dovremmo, invece, giudicare e valutare il rispetto reale del principio secondo cui la Svizzera non dovrebbe vendere armi ai Paesi implicati in conflitti armati o in pericolo di esservi implicati. Dallo stesso criterio dovremmo declinare anche la convinzione che la nostra politica in favore della pace nel mondo dovrebbe tradursi anche in una più generosa politica di accoglienza degli altri, degli stranieri, dei lavoratori, dei profughi e dei rifugiati. Una politica retta da realismo, certo, ma, proprio per questo, non dettata in modo prioritario dalla paura per la nostra sopravvivenza nazionale. Una politica che non dovrebbe, neppure lontanamente, poter essere accostata a quella della «sicurezza nazionale» praticata in altri Continenti.
Cari sorelle e fratelli nel Signore, celebrando il quinto centenario della morte di un Santo che appartiene alla più grande tradizione della nostra convivenza civile; di un Santo che, pur avendo vissuto con assoluta intensità tutte le tappe della sua esistenza umana; di un Santo che, pur essendo passato attraverso l’esperienza più primordiale dell’uomo, quella del matrimonio e della procreazione, è stato elevato da Dio fino ai confini senza limiti della conoscenza del mistero del rapporto interno alle persone della santissima Trinità; di un Santo che ha realizzato in se stesso, pienamente, la coscienza di essere stato creato a immagine e somiglianza del Dio trino; celebrando la memoria di questa grandissima figura di cristiano, così familiare col mistero della Trinità, dobbiamo fare un’ultima riflessione inerente al momento storico in cui viviamo.
Se dalla recita del Credo in cui ricordiamo che il Figlio di Dio è disceso e si è fatto uomo, dando tutto se stesso fino a sacrificarsi sulla croce, dobbiamo capire con maggior senso di attualità il contributo che noi cristiani dobbiamo dare oggi alla pace tra i popoli, da un altro versetto del Credo, quello in cui si asserisce che il Figlio di Dio è stato «generato» e non fatto, dobbiamo saper cogliere un’indicazione precisa per affrontare uno dei problemi più scottanti della nostra epoca, un’epoca che, per la prima volta nella storia, ha visto l’uomo in grado di produrre l’uomo: il problema della procreazione artificiale.
L’essere stati creati a immagine e somiglianza del Dio trino, ci deve far capire che il solo modo adeguato e degno della dignità dell’uomo per trasmettere la vita è quello della generazione. Il Figlio di Dio è stato generato, non creato e non fatto. L’esperienza comune ci permette di capire cosa voglia dire generare: è il fatto di trasmettere la vita in modo immanente ad un atto di amore tra l’uomo e la donna. Se il Figlio di Dio, in cui tutti siamo stati creati e che è l’immagine di tutte le cose create, è stato generato, anche l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, pur essendo creato da Dio – contrariamente al Verbo – può solo essere generato e non può essere fatto. L’uomo, in quanto essere che realizza in se stesso una dimensione divina, perché porta impressa nella sua natura l’immagine e la somiglianza di Dio, non può essere prodotto come una cosa. Non è adeguato alla dignità incommensurabile della persona umana, partecipe in se stessa della dignità stessa del Dio trino, essere fatto, come qualsiasi prodotto della tecnica.
La produzione dell’uomo in vitro non è un atto di generazione, anche quando fosse omologa, come afferma il recentissimo documento del Magistero papale che porta il titolo emblematicoDonum vitae: il dono della vita. Dobbiamo imparare a tenerne conto. Devono tenerne conto anche quei genitori che nobilmente desiderano avere un figlio, non potendolo generare. Per essere facilitati a capire questa dottrina della Chiesa, dobbiamo anche sapere che non esiste il diritto dei genitori ad avere un figlio, perché la dignità della persona umana non ammette che essa possa diventare l’oggetto di diritto di un’altra persona.
L’uomo creato a immagine di Dio non può essere fatto o prodotto dall’uomo, può essere solo generato, sul modello del Figlio stesso di Dio, che è generato all’interno del rapporto trinitario. La nostra immagine e somiglianza di Dio sarebbe vana, se essa non si avverasse nell’uomo proprio al momento della sua venuta all’essere e alla vita.
Affermando queste cose, non ci siamo allontanati da Nicolao della Flüe, che vogliamo commemorare oggi nel quinto centenario della sua morte. È il Santo la cui caratteristica specifica è stata senza dubbio quella di aver avuto la visione del mistero della Trinità, come testimonia il drappo dipinto da un suo contemporaneo su indicazione del Santo stesso. Un Santo che ha capito come il mistero della Trinità non solo ci determina nella natura profonda del nostro essere, fatto a sua immagine e somiglianza, ma ci deve determinare, oggi, nel nostro rapporto con l’uomo stesso. È questo un rapporto che non possiamo degradare a un “fare” o “produrre”; deve rimanere sempre simile a quella generazione, in forza della quale il Figlio di Dio, Gesù Cristo, Dio vero da Dio vero, Luce da Luce, è generato eternamente dal Padre in un gesto incommensurabile di amore e di tenerezza divina. Anche l’uomo deve essere uomo vero da uomo vero, generato e non fatto, in un certo senso portatore in sé della sostanza, cioè della natura stessa di Dio.

Omelia tenuta nella Cattedrale di Lugano l’8.09.1991 in ricordo della Beatificazione di suor Chiara Bosatta, guanelliana.

Se vogliamo capire chi siamo e cosa dobbiamo fare, dobbiamo sempre tornare alle origini. Al riguardo, mi ha sempre colpito una definizione di Papa Pio XI per Don Luigi Guanella: «è stato il Garibaldi della carità».
In essa il Papa ha colto la determinazione straordinaria di Don Guanella nella realizzazione del carisma, che lo Spirito Santo gli aveva seminato dentro il cuore, così da renderlo, non solo ardito nei suoi propositi di carità, ma anche contagioso. Ha, infatti, coinvolto attorno alla sua persona e al suo carisma decine di migliaia di altre persone. Da esse si è costituito anche un ramo femminile e uno maschile di persone consacrate, che diventarono il cuore di quell’opera che lo Spirito Santo aveva suggerito al Beato di compiere in seno alla società e alla Chiesa del suo tempo.
Un’opera che ha tradotto mirabilmente, nel contesto sociale di allora, il principio della carità cristiana.
Una di queste persone contagiate e coinvolte dal carisma di Don Guanella è stata Suor Chiara Bosatta.
A ventinove anni ha terminato la sua vita terrena, dopo soli dieci anni di vita consacrata. Oggi ne celebriamo e festeggiamo la memoria.
Don Luigi Guanella l’ha definita «la sua vera eredità » perché, come è scritto nella Bolla di beatificazione, Sr. Chiara ha saputo coniugare la vita contemplativa con quella attiva. Ha vissuto intensamente, pur nella brevità della sua esistenza, ed ha raccolto, continuato e riproposto a noi il carisma originale del Fondatore: il carisma della carità.
Ho letto, nelle opere agiografiche date alle stampe in occasione della beatificazione di Suor Chiara, che Don Guanella, in eredità, non ha lasciato un patrimonio dottrinale, essendo pochi i suoi scritti. Ne risulta, come conseguenza, che il suo carisma non è definibile in termini concettuali.
Con l’esempio della sua persona, ha lasciato, invece, alcuni criteri da mettere in pratica: quello della testimonianza e quello della discepolanza: «Fate testimonianza e fate dei discepoli».
In realtà non è facile dare una definizione teorica della carità. Non ce l’ha lasciata nemmeno San Paolo, che di tutti gli autori è stato quello che ha composto il più bell’inno alla carità reperibile nella letteratura cristiana. L’ha descritta nella prima lettera ai Corinzi nel brano del cap. 13, che tutti conosciamo: «La carità deve essere paziente, benigna, compassionevole …».
È quasi sorprendente constatare che nel patto spirituale, stipulato con il Signore da Suor Chiara Bosatta il giorno della sua vestizione, ricorra una descrizione della carità molto simile a quella paolina. Suor Chiara ha chiesto, infatti, al Signore di essere sempre obbediente, umile, rispettosa, mansueta, dolce, paziente, modesta, raccolta, mortificata, pura di mente e di cuore, bramosa di fare il bene per tutti.
È quasi un contrappunto alla lettera scritta per i cristiani di Corinto, ma con un’ispirazione propria e originale. Ciò dimostra che, anche per Suor Chiara, la carità è descrivibile solo secondo mille comportamenti diversi, ma tutti convergenti e focalizzati verso l’imperativo di voler bene agli uomini.
Questa visione concreta ed operativa della carità, assieme alla sua testimonianza concreta, è il vero patrimonio spirituale che Suor Chiara ha lasciato in dono alla duplice Congregazione guanelliana, maschile e femminile, e a tutti noi che la veneriamo come Beata.
Noi, ricordandola, dobbiamo sentire un profondo senso di venerazione e una grande umiltà e renderci conto che Sr. Chiara propone oggi questo messaggio anche alle nostre persone. Poiché, se una celebrazione liturgica, come quella che stiamo vivendo, non diventa un momento di riflessione profonda e magari anche un’occasione di conversione, potrebbe svilirsi a semplice commemorazione.
La celebrazione della festa di una persona beatificata dalla Chiesa, per essere vera, deve necessariamente diventare opportunità di conversione; un momento nel quale cerchiamo di lasciarci penetrare dal messaggio che, nell’ambito della storia della Salvezza, il Signore ha voluto comunicarci tramite quelle persone che Lui stesso ha scelto ed eletto per renderle testimonianza contagiosa nei confronti di tutti gli uomini.
La storia di una persona che, in seno ad una famiglia, ad una Congregazione, o a un movimento ecclesiale, tocca i vertici della santità, è sempre un fatto in cui si concretizza e manifesta, con grande evidenza, la storia della Salvezza.
Noi pensiamo sempre alla storia del mondo e dell’uomo in termini secolari, ma la vera storia del mondo è la storia di Dio che si manifesta agli uomini; di Dio che manda il Figlio perché sia presente come uomo in mezzo a noi; è la storia di Dio che continua, perciò, attraverso la Chiesa.
Questa storia della Salvezza si realizza in modo particolarmente efficace e manifesto attraverso quelle realtà ecclesiali che sorgono sotto l’impulso del carisma di un Fondatore.
Dobbiamo perciò saper vivere la storia di una persona, come quella della nostra Beata, e parimenti la storia del Servo di Dio, Mons. Bacciarini, che ha portato con sé, dentro il cuore stesso della nostra Diocesi, il carisma di Don Guanella, come un’emergenza precisa della storia della Salvezza, vale a dire della storia della Presenza di Dio nel mondo.
Se siamo convinti di questo fatto, dobbiamo allora essere capaci di assumere seriamente questa storia nella nostra vita; di non lasciarla semplicemente trascorrere, ma cercare, invece, di inserirci per vivere, in essa, l’identità della nostra persona. Oggi è un giorno di festa ed un giorno di riconoscenza. Il primo sentimento che dobbiamo lasciar emergere nel nostro cuore è quello della gratitudine al Signore per averci dato queste testimonianze. – Lo dico innanzitutto a voi Suore e a voi Padri e a tutte le persone che si sono aggregate attorno all’Opera di Don Guanella – Un senso di profonda gratitudine, perché nella storia di queste persone ritroviamo noi stessi e scopriamo la nostra vocazione. Io colgo l’occasione per ringraziare tutti.
Il vostro Padre Generale ha sottolineato il fatto che, nelle nostre terre, l’Opera di Don Guanella è incominciata già durante la sua vita terrena. Non è possibile, in questa omelia, fare l’elenco di tutto quanto è avvenuto. Ma, se nella nostra Diocesi, una parte delle persone più deboli, più povere, più bisognose e più diseredate ha incontrato l’amore di Cristo, questo è uno dei meriti principali dell’Opera guanelliana.
Il Vangelo di oggi mi suggerisce l’ultima considerazione. Voglio modestamente lasciarvela come ricordo: Gesù, di fronte alla chiusura e all’avversità incontrata nel Popolo di Israele, è uscito dai suoi confini geografici, per andare a Sidone a compiere un miracolo. Ad esso ha voluto conferire una valenza particolarmente simbolica. Ha aperto la bocca a un muto e le orecchie a un sordo, perché tutti capissero che, di fronte al Suo messaggio, nessuno può rivendicare una posizione di privilegio.
Nessuno deve credere, individualmente o in quanto membro di una comunità avente una storia religiosa comune, di possedere Dio con diritto di esclusiva.
Il Popolo di Israele aveva la pretesa di essere l’erede della Promessa. Di fronte alla imminente realizzazione della Promessa, esso si è chiuso ed ha rifiutato la persona del Figlio che il Padre aveva mandato.
Questo ci deve indurre a riflettere, poiché oggi nella Chiesa viviamo una situazione analoga. La Chiesa, infatti, sta crescendo enormemente anche al di fuori dei confini del l’Europa. Il fiorire delle vocazioni religiose maschili e femminili proprio in questi Paesi, che abbiamo continuato a chiamare “paesi di missione”, deve farci riflettere sull’episodio del miracolo compiuto da Gesù a Sidone.
Gesù esce dai confini geografici e politici d’Israele per mostrare a tutti che nessuno può pretendere di essere il titolare esclusivo della Salvezza; nessuno deve osare giudicare il Cristo come se fosse proprio. Tutti devono saperlo ascoltare sempre di nuovo seguirlo, anche e soprattutto quelli che lo hanno incontrato per primi.
Forse in Europa ci sentiamo ancora quasi titolari privilegiati del messaggio cristiano, proprio perché l’esperienza cristiana ha suscitato tra noi molti Santi. Ora dobbiamo però prendere atto della progressiva sterilità della nostra testimonianza e perciò della nostra incapacità a suscitare e ad aggregare discepoli e figliolanza nella fede.
Se tornassimo all’origine della nostra vocazione cristiana, allora, forse, avremmo ancora il coraggio di rimetterci tutti nella posizione di riascoltare nel profondo della nostra persona la Parola di Dio.
Il carisma, che lo Spirito Santo ci ha comunicato attraverso Suor Chiara e il Servo di Dio Aurelio Bacciarini e sul quale oggi siamo chiamati a meditare, può diventare aiuto potente per indurci a seguire con più fedeltà la Parola di Dio.
In fondo, la domanda che dobbiamo farci in questo momento è la seguente: in quale misura Don Guanella, la Beata Chiara e il Vescovo Bacciarini possono ancora riconoscersi in noi e in quello che facciamo?
Ma non si tratta solo di riaprire il cuore all’ascolto. A Sidone, Gesù non ha guarito solo la sordità, ma alla stessa persona ha ridato anche la parola. Anche noi dobbiamo riscoprire la parola, poiché diventa sempre più necessario per ogni cristiano saper dare agli altri le “ragioni della propria fede”. Non basta più compiere solo le opere, come del resto non è mai stato sufficiente. Le opere come la testimonianza fattiva non bastano. Oggi più che mai dobbiamo saper dare testimonianza anche attraverso la parola; attraverso la comunicazione agli altri di quello che crediamo e siamo. È essenziale dire agli altri ciò che abbiamo dentro il cuore: la fede che il Signore ci ha consegnato. È tempo di nuova evangelizzazione.
Non sono le opere della Congregazione, della Diocesi, ciò che conta prima di tutto, bensì l’impegno dell’annuncio della Salvezza di cui esse sono l’espressione. È l’annuncio della fede, insita nelle opere, ciò che dobbiamo rendere più esplicito, più capace di essere recepito e capito da quelli che credono e da quelli che non credono.
Dobbiamo saper dare le ragioni anche della nostra carità.
Sono persuaso che la mancanza di vocazioni, di cui tutti soffriamo, nella Diocesi come nelle Comunità religiose, nasca da una nostra incapacità di spiegare alla gente, con la quale veniamo in contatto, la nostra storia, la nostra identità e ciò che noi abbiamo sperimentato vivendo la nostra vocazione cristiana.
Il Vangelo odierno ci dà una chiara indicazione. Il Signore Gesù, allora come oggi, sembra uscire dal luogo originario della Sua predicazione, per andare ad offrire il Suo messaggio a coloro che sembravano essere ciechi e muti.
La Chiesa sta vivendo, con vitalità più profonda, oltre i confini nei quali da quasi due millenni si era insediata.
Don Guanella ha capito questo, non limitandosi ad operare nella società nella quale è cresciuto ed ha vissuto gran parte della sua vita, ma ha rincorso le persone, andando ad assisterle con la sua parola e le sue opere fin nelle Americhe. Anche noi, diocesani e religiosi, dobbiamo, sul suo esempio, proporci di diffondere con maggior chiarezza il carisma che il Signore ci ha consegnato, cercando di utilizzarlo, non unicamente per compiere delle opere, ma per contagiare alla fede altre persone.
«Un Garibaldi della carità», ha detto Pio XI di Don Guanella. In Suor Chiara egli ha trovato la sua eredità più vera. Possa trovare in noi la continuazione più efficace. Non possiamo sciogliere questa assemblea senza portare in cuore una grandissima affezione per questa donna. Nella vita tutto incomincia dall’affezione.
Questo volto di Suor Chiara, che abbiamo continuato a guardare durante questa celebrazione, deve restare impresso nella nostra memoria, poiché da solo è capace di suscitare in noi un grande desiderio di essere come lei.
Una parola di profonda gratitudine a tutti voi Guanelliani e Guanelliane, arrivati nella Diocesi circa cento anni fa. Come nessun’altra Congregazione, siete inseriti nella nostra storia, attraverso il Vescovo, Servo di Dio, Mons. Aurelio Bacciarini. È un legame profondo con il carisma del vostro Fondatore Don Guanella, che ha dato i suoi frutti, non solo attraverso le vostre opere caritative, ma anche perché, con la persona del Vescovo Aurelio e il suo spiccato carisma per la carità, è sorto in mezzo a noi un vescovo che potrebbe essere proclamato beato e santo.
Il mio non è un ringraziamento solo di circostanza, per i ricchi doni che mi avete offerto, in particolare la reliquia della vostra nuova Beata. È un ringraziamento ché nasce da una storia profonda, da cui la nostra identità diocesana non può prescindere.
Guardando il volto di Sr. Chiara, abbiate sempre nel cuore una grande speranza.